Exhibition view, Another Swiss version, 2002
Mostre

ANOTHER SWISS VERSION

25.01.2002—16.03.2002

Stefan Altenburger, Philippe Schwinger, Bohdan Stehlik, Beat Streuli, Frédéric Moser, Jörg Lenzlinger, Myk Henry, Emmanuelle Antille, Szuper Gallery

A cura di Simon Lamuniére, Jerome Leuba e Cristina Busin

“L’uomo – scriveva Mario Vargas Llosa – è un essere mutilato e condannato a vivere una vita sola, ma la finzione può donargli l’illusione di desiderarne altre mille”. In effetti, saper distinguere tra la finzione e la realtà, e riuscire a percorrere quel guado cangiante ed incerto dove cessa il vero e comincia l’invenzione, è stato, a parere di molti, una delle costanti piú recondite ma anche piú ricorrenti del secolo che ci siamo appena lasciati alle spalle. Ed è proprio su quest’angusto spartiacque che si dipana la mostra attualmente allestita dalla Galleria Museo di Bolzano, “Another Swiss Version”, dedicata ad una serie di recenti opere d’arte video provenienti dalla Svizzera. Se c’è una cosa, infatti, che il ventesimo secolo ha dimostrato in modo inequivocabile, è proprio che non può piú esistere una demarcazione netta tra la finzione e la realtà. Quante volte, ad esempio, anche le immagini d’uso piú banali ci vengono proposte piú o meno impercettibilmente abbellite, corrette, integrate o alterate con ritocchi ormai invisibili, ma lasciando che i flutti languenti dei desideri sciabordino sull’arenile della realtà? E quante volte, invece, è il mondo reale ad invadere i meandri fantastici della finzione? Oggigiorno, è sempre piú raro che un film esca dalle fabbriche dei sogni senza l’implicito marchio che “ogni riferimento a personaggi reali è voluto e per nulla casuale”, e ormai l’altalenarsi ironico delle molte realtà possibili scandisce come un pendolo tutta la nostra esistenza.
Ma dove comincia, allora, questa fantomatica zona grigia che separa desiderio e realtà? Dove cessa l’osservazione per cedere il passo all’interpretazione? Il curatore svizzero della mostra, Simon Lamunière, ha selezionato alcune opere attuali d’arte video svizzere, cercando proprio di individuare l’inizio e la fine di quest’affascinante quanto improbabile limbo. Varcando la soglia della Galleria Museo, infatti, il visitatore si ritrova proiettato in una sala d’attesa non molto diversa da quella di un aeroporto o una stazione delle corriere, anzi, una vera e propria fermata, una bolla immaginaria in cui il tempo rallenta e si arresta, racchiudendo in sé le opere d’arte esposte. E subito si è avvinti dal dubbio martellante ed insolubile su cui gravita la mostra: le storie, infatti, hanno sempre un inizio e una fine, e come tali già diventano finzione, ma un video è raro che narri delle vicende compiute, apparendoci semmai come qualcosa “senza tempo”. Ecco perché ciascuno di noi non può che calarsi in una situazione, osservare un’immagine o una sequenza, e “quando si allontana, l’immagine è ancora lí, sicché è l’osservatore a decidere in quale momento l’immagine inizia e finisce.” (Lamunière) Un esponente d’indubbio rilievo di questo vacillare funambolico tra osservazione ed interpretazione è Beat Streuli, classe 1957, che nella sua opera “Kids Playground”, realizzata nel 1995, riprende dei bambini intenti a giocare, o meglio, dei bambini che si può ritenere che giochino, visto che è il visitatore ad integrare ciò che osserva con la propria interpretazione personale.
Un altro esempio significativo è Miy Henry (1965), divenuto famoso grazie alle fotografie istantanee con cui descrive la vita quotidiana. Fedele alla sua impostazione documentaristica, anche in questa mostra propone un’opera d’arte video realizzata a mo’ d’esperimento in tre metropoli europee – Praga, Berlino e Ginevra – dove attraversa strade trafficate lasciando cadere a terra dei fogli di carta, per poi raccoglierli con ostentata lentezza. Nel suo video, l’autore documenta le reazioni degli astanti, per esempio dell’autista di un tram costretto a fermarsi per aspettarlo dopo essere transitato davanti ad un cartello con la scritta “what is five minutes of your time? “.

La coppia Philippe Schwinger (1961) e Frédéric Moser (1966) si spinge oltre nel proprio cammino verso la finzione, proponendo delle sequenze filmate artificiali in cui gli attori tengono in mano delle armi prendendo la mira, o si muovono su moduli scenici simili a quelli di un thriller, sullo sfondo di un galoppatoio. Ma è una sequenza la cui logica non scaturisce da una vicenda da narrare, ma semmai ci viene proposta con una trama frammentata che lasci aperte una serie d’intercapedini in cui s’insinua l’interpretazione del visitatore.
Anche il trio Szuper Gallery fa leva sugli automatismi mentali che inducono l’osservatore a voler ricostruire storie compiute da singole frequenze. I tre artisti, infatti, muovendosi tra i capannoni e gli uffici di un edificio industriale londinese, attraversano corridoi e sale conferenze, fanno apparire e scomparire porte a vetro, schermi, banchi di ricevimento e una serie d’oggetti che, pur in assenza dell’uomo, evocano una propria funzione. Finché, ad un certo punto e senza motivo apparente, si scorge un corpo umano riverso per terra …
Una giovane ma ormai consolidata promessa della scena artistica svizzera è Emmanuelle Antille, che nella sua opera “In would’nt it be nice” (1999), si sofferma sui rapporti umani e i loro risvolti piú inquietanti. In uno stile da ripresa amatoriale, con movimenti delle telecamera lineari ed un montaggio dal sapore quantomeno ingenuo, l’artista si immerge nella quotidianità di una famiglia normale (per la cronaca, la propria), con la figlia che torna a casa, mangia coi genitori, si ritira in camera sua e cosí via. Ma sulla quiete apparente del manage domestico pesa una tensione palpabile quanto spiacevole, perfino fisica, tra madre e figlia, e senza mai darne una rappresentazione esplicita, l’autrice fa affiorare lo spettro incombente di un pericolo incognito, quant’anche abissale. Eppure, anche qui il solo e vero interprete delle scene proposte altri non è che l’osservatore.
Jörg Lenzinger , anch’egli esponente affermato tra i giovani artisti svizzeri, decide di far recitare tre oggetti, nella fattispecie dei telecomandi incandescenti, in una raffigurazione estetica allegramente colorata e mediata dal gusto estetico piú pacchiano.
Le foto di Bohdan Stehlik infine, indicano parchi o zone periferiche urbane, leggermente modificate, p. es. con tracce di gomma o elementi di luce. Le opere esposte assomigliano ai manifesti delle agenzie di viaggio. Proseguendo nella sala posteriore della Galleria, il visitatore esce dalla sala d’attesa in cui era stato risucchiato, per assistere ad un filmato digitale di Stefan Altenburger (1968). Grazie ad un simulatore di volo programmato sulla circumnavigazione terrestre, il calcolatore rielabora costantemente nuove immagini del Pianeta viste da un’ipotetica cabina di pilotaggio. Il punto di partenza di questa rotta infinita è Ginevra, ma anche Bolzano si scopre ad una manciata di miglia da quest’orbita virtuale