Basim Magdy, My Father Looks for an Honest City, video still (2010)
Mostre

IN THE WINTRY THICKET OF METROPOLITAN CIVILIZATION

16.11.2012—12.01.2013

Yin-Ju Chen & James T. Hong, Basim Magdy, Mores McWreath, Pietro Mele, Camilo Yáñez
A cura di Luigi Fassi

In the Wintry Thicket of Metropolitan Civilization prende il titolo da un omonimo passaggio contenuto in The Culture of Cities il primo libro di Lewis Mumford, pubblicato nel 1938. Le analisi appassionate di Mumford univano la forza della militanza a quella della lucidità teorica, nel tentativo di ripensare l’urbanistica come una pratica profondamente umanistica, capace di guidare la progettazione delle città a partire da un insieme di valori civili e progressisti. The Culture of Cities è così la formulazione di un insieme di progetti e speranze declinate nel concreto di una pratica progettuale volta a rivolgere l’attenzione sulle città come centri decisivi del vivere civile nel mondo del XX secolo e del futuro prossimo. La mostra raccoglie le esperienze artistiche di cinque artisti di diversi continenti che hanno riflettuto nel loro lavoro su temi legati all’urbanesimo e alla storia degli inurbamenti metropolitani. Tra il passato recente e un futuro immaginato, le opere riverberano liberamente l’enigmatico senso del titolo che nelle intenzioni di Mumford esprimeva un allarme, ma al tempo stesso l’urgenza di uno sprone a rinnovare lo spazio abitativo dell’uomo a partire dal suo luogo di aggregazione e condivisione da sempre più importante e decisivo: quello delle città.

My Father looks for an honest city (2010) di Basim Magdy mostra uno scenario desolato, quello delle periferie in espansione del Cairo, segnato da edifici anonimi in costruzione, strade in terra battuta e cani randagi. Luogo di transizione tra il cemento e la vegetazione spontanea, non ancora completamente urbanizzato e al tempo stesso non più rurale, il sito è percorso lentamente dal padre dell’artista che regge in pieno giorno una lampada accesa, esplorando il territorio senza una finalità manifesta. È evidente il riferimento dell’opera alla figura di Diogene il cinico che provocatoriamente “cercava l’uomo” sorreggendo una lampada mentre vagava in pieno giorno per i mercati di Atene. Mediante questo gesto paradossale Diogene suscitava una critica radicale sulla capacità dei suoi concittadini di assumere una partecipazione attiva alla loro realtà sociale senza essere solo vacue comparse. Il re-enactment filosofico di Magdy opera in termini intuitivi una medesima sollecitazione, affidando ai gesti minimi del padre la capacità di leggere un territorio anonimo in termini analitici, interrogandosi sul destino del Cairo e dell’Egitto contemporaneo. You Have never Been There (2010) di Mores McWreath è un film di 90 minuti, composto assemblando liberamente scene tratte da 120 film che hanno raccontato e tematizzato la fine della civiltà umana in termini apocalittici. L’artista ha selezionato scene in cui si alternano con evidenza, paesaggi urbani e naturali devastati, segnati dai regesti della civiltà occidentale e da un presente di disfacimento e dissoluzione. In tal modo L’opera è un ritratto della civiltà occidentale successivo alla sua fine, la descrizione per immagini di un’autodistruzione progressiva in cui l’estetica della cinematografia è sottratta dall’artista alla fiction per diventare documento reale, prova testimoniale e archivio ante litteram di un probabile scenario futuro. In End Transmission (2010) di Yin-Ju Chen & James T. Hong immagini in bianco e nero di siti metropolitani in successione compongono un paesaggio indecifrabile, caratterizzato da un senso di sorveglianza e asservimento. I messaggi che appaiono a intermittenza dettano il nuovo programma di gestione del pianeta da parte di entità aliene indefinite. Dai contenuti imperativi dei testi si evince che l’umanità ha fallito ed è necessario un radicale intervento di palingenesi da parte di un potere esterno. Questa suggestione da science-fiction è supportata da immagini autentiche di piattaforme industriali, sconfinate metropoli notturne, serre artificiali e masse di merci da consumo pronte per l’esportazione. Girate dal vivo tra l’Europa e l’Asia, le scene di Yin-Ju Chen e James T. Hong alludono alle trasformazioni in corso dei grandi contesti metropolitani contemporanei e delle produzioni industriali su grande scala, lasciando affiorare una drammatica immagine dell’alienazione della vita e del lavoro contemporaneo su scala globale. Partendo da una ricerca localizzata sulla micro realtà della Sardegna contemporanea, l’italiano Pietro Mele porta avanti una riflessione critica sulla traumatica modernità che è stata imposta al mondo agropastorale dell’isola. Ottana (2008) prende il titolo dall’omonima cittadina nell’area della Barbagia dove a partire dagli anni Sessanta è sorto un gigantesco polo petrolchimico di devastante impatto ambientale. L’opera racconta il compromesso stridente tra il mondo della grande produzione industriale e la quotidianità degli operai che mantengono sin alle porte della fabbrica tradizioni e usanze residuali proprie di un mondo ormai prossimo all’estinzione. L’urbanizzazione e il lavoro industriale appaiono nell’opera di Mele un incubo calato da altrove, una mostruosa allucinazione visiva che si staglia sullo sfondo del paesaggio rurale sardo, attraversato all’alba dagli operai in fila a cavallo verso la fabbrica. Protagonista di Estádio Nacional (2009) di Camilo Yáñez è la città di Santiago, colta nelle vicende drammatiche degli ultimi decenni. Il film è stato girato dall’artista l’11 settembre del 2009 nello Stadio Nazionale di Santiago del Cile, luogo chiave della storia cilena contemporanea. In particolare lo stadio è entrato nella memoria collettiva del Paese in seguito al colpo di stato occorso proprio l’11 settembre del 1973, quando il generale Pinochet con l’appoggio degli Stati Uniti destituì il governo democraticamente eletto di Salvatore Allende. Nei giorni convulsi successivi al colpo di stato lo stadio divenne un luogo di prigionia dove vennero assassinate oltre 3000 persone dalle forze della nuova dittatura militare. Girato il film all’interno dello stadio vuoto e accompagnato da una celebre canzone del repertorio nazionale cileno, Estádio Nacional è un omaggio alla storia cilena, al tempo stesso un’elegia funebre in memoria delle vittime del colpo di stato del ‘73, ma anche un rilancio in avanti della speranza, in un luogo che ha visto alternarsi le speranze e i drammi sociali più cupi del popolo cileno.